Total lo sapeva dal 1971

In aprile, Reclaim Finance et altre organizzazioni chiedevano firme sotto un appello agli azionisti di Total. Li invitava a votare contro un piano “clima” che consiste nell’investire fino al 2030 due miliardi in rinnovabili e greenwashing per ogni 8 miliardi investivi nell’aumentare del 30% le sue estrazioni di metano – in Africa e nell’Artico, principalmente – senza ridurre quelle di petrolio.

Da ieri, Notre Affaire à Tous e 350.org raccolgono firme sotto l’appello “Total lo sapeva” che chiede alle banche di smettere di finanziarne gli investimenti in combustibili fossili.

L’altro ieri infatti, gli storici Christophe Bonneuil e Ben Franta, e il sociologo delle imprese Pierre-Louis Choquet hanno pubblicato su Global Environmental Change

I dirigenti di Total sapevano probabilmente dagli anni ’60 che i loro prodotti causavano il riscaldamento globale, perché l’American Petroleum Institute aveva distribuito ai soci il rapporto commissionato dal presidente Johnson al suo Science Advisory Committee.

Nel 1971 sulla rivista aziendale Total Information, pubblicavano un articolo preoccupato: “La pollution atmosphérique et le climat” di François Durand-Dastès, che prevedeva 400 ppm di concentrazione atmosferica della CO2 “attorno al 2010”.

  • L’articolo faceva parte di un numero speciale sull’ambiente con una presentazione in cui il presidente della società notava che “la difesa dell’ambiente è spesso accompagnata da una dura critica delle grandi industrie, comprese quelle petrolifere (Granier de Liliac, 1971(2)).

Nel decennio successivo, più i dirigenti erano informati e più finanziavano e/o creavano istituti che dovevano da un lato informare i politici e l’opinione pubblica sui loro impegni a favore dell’ambiente, e dall’altro produrre dubbi sulle ricerche dei climatologi e propagarli insieme a lobby e pseudo-enti di ricerca francesi, europei e internazionali.

Siccome negare l’evidenza suscitava critiche sgradevoli nei media, dal 1994 ammettevano in pubblico che il riscaldamento globale era reale e pericoloso, e continuavano a ritardare e bloccare interventi per limitare le emissioni di gas serra.

Bonneuil et al. hanno anche raccolto documenti e testimonianze sull’ostruzionismo orchestrato dalla Exxon partire dagli anni Ottanta attraverso l’International Petroleum Industry Environmental Conservation (sic) Association.

L’Ipieca era nata a Londra nel 1974 prima per rinverdire l’immagine di British Petroleum e poi per “collaborare con climatologi” e nominare esperti di sua fiducia quali autori di rapporti Ipcc.

Come l’American Petroleum Institute e la Global Climate Coalition, l’Ipieca era impegnata nella stessa “produzione di ignoranza” ma in modo più indiretto e insinuante. Dal 1991 al 1994, era diretta da Bernard Tramier, presidente di Elf, un petroliere francese poi acquisito da Total:

  • Finanziava ricerche scientifiche che potessero rafforzare la capacità dei petrolieri di enfatizzare i limiti dei modelli climatici e potenzialmente di rendere il riscaldamento globale meno allarmante, come il lavoro sugli aerosol e le nubi allo Hadley Centre in Gran Bretagna e quello sull’assorbimento del carbonio da parte degli oceani in USA (IPIECA, 1992, p. 9). Inoltre nei primi anni Novanta, Elf cominciò a piazzare giovani ingegneri neo-laureati nei laboratori di climatologia ad Amburgo e negli USA, compresi UCLA, MIT e NCAR, per monitorare gli ultimi sviluppi della climatologia.

Per contestualizzare le citazioni di documenti e interviste, gli autori riassumono mezzo secolo di storia della politica e dell’opinione pubblica in Francia e nell’Unione Europea (citano anche ricerche francesi sul clima a partire dagli anni Sessanta).

In questo, è una ricerca diversa da quella di Geoffrey Supran e Naomi Oreskes in “Assessing ExxonMobil’s climate change communications (1977–2014)“.

Le Big Oil europee non sono in grado di comprare l’elezione di legislatori e e governanti compiacenti. Anche se riescono a “piazzarne” qualcuno, non hanno l’influenza globale di quelle statunitensi. Agiscono con discrezione, senza vantarsi del potere che esercitano in patria e nei paesi – ex colonie in primis – dove operano.

Mandano i propri rappresentati alle conferenze internazionali, ma lasciano l’American Petroleum Institute e la Global Climate Coalition – di cui fanno parte – difendere gli interessi della categoria.

Nel 2004, Total si dota di una divisione “Metano e rinnovabili” e di un’immagine pubblicitaria da ambientalista – come aveva fatto quando era nato il movimento ambientalista francese. Insieme alle altre BigOil, affonda ogni iniziativa in difesa del clima e dell’ambiente con la complicità di politici ringraziati con una poltrona in consiglio di amministrazione – o che l’hanno appena lasciata.

Nel 2006, riconosce – in pubblico – l’autorevolezza del rapporto Ipcc, mentre nei media i “suoi” scienziati ne sottolineano le incertezze. Gli autori non dicono come abbiano reagito ExxonMobil, BP e Shell, peccato.

Dopo l’accordo di Parigi che sperava di impedire, Total lancia un piano ventennale di decarbonizzazione che ritocca via via per renderlo più opaco e inverificabile, e che viene smentito dai suoi investimenti: 1 miliardo in rinnovabili per ogni 7 miliardi in fossili.

  • Nel 2021, Total ha annunciato che avrebbe ampliato i propri investimenti nelle energie non fossili e che si sarebbe chiamata TotalEnergies (lo stesso nome che usava nelle pubblicità del 1977 quando sosteneva di investire nell’energia solare, in realtà senza cambiare in alcun modo il suo business model basato sul petrolio (Total, 1977).

Ha solo perso un po’ di pelo?

Rif. anche Le Monde

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