Per “ocean manager”

Non sapevo che fosse un mestiere. Michael Jacox e altri ricercatori della NOAA e di università della California descrivono su Nature un modello capace di prevedere con 6 e perfino 12 mesi di anticipo la probabilità di ondate di calore marine.

Vedere cammello, vien da dire pensando alla Niña che sei anni fa sembrava spuntare e lasciava il posto a due Niño(s?). O ai problemi dei modelli meteo-climatici a 5 anni.

Giusto. Per il prossimo settembre, il cammello è questo:

NOAA Fisheries, public domain (cliccare per vederlo meglio)

Il paper, i dati, il codice e perfino i giudizi dei peer-reviewer sono in open access. Consiglio di leggerlo a chi, come me, escludeva le ondate di calore marine dagli eventi meteo estremi a meno che non sbiancassero di colpo metà della Grande barriera corallina.

Il modello è “costruito sull’architettura di quelli climatici” (CMP4) verificati dalle osservazioni nel periodo 1991-2020, certo, ma è il primo del suo genere e ha parecchi limiti, scrivono gli autori. Nel Mediterraneo per esempio c’è troppa variabilità a breve per riuscire a limitare le incertezze. Nel Pacifico centrale l’ENSO è determinante e una volta partito un Niño, le previsioni per le stagioni successive sono una passeggiata (quasi, sto semplificando anche se il bello del paper è nei dettagli inaspettati).

Le previsioni saranno pubblicate via via dalla NOAA e gli autori suggeriscono come i paesi interessati potranno derivarne modelli analoghi in scala e previsioni locali usando i propri dati (qui alludono alla Cina e al Giappone secondo me) e quelli di Copernicus.

Grazie, molto gentili, ma che ce ne facciamo? Piani per le vacanze? A settembre si rimorchiano iceberg dall’Antartide al Pacifico centro-occidentale con per salvare le barriere coralline dallo sbiancamento?

Servono ai “decisori oceanici” per la “gestione oceanica” (ocean management), in sostanza delle risorse ittiche. Preavvisato, un ministero della pesca potrebbe vietare l’accesso a certe zone o agli habitat di specie che si riproducono molto meno se l’acqua è troppo calda.

Nella news & views, Markus Donat sottolinea l’utilità e l’affidabilità del modello, solo per abbonati. Comunque la presentazione della NOAA Fisheries è molto più utile del solito com. stampa. Rimanda a rassegne di ricerche sugli effetti delle ondate di calore in diversi ecosistemi marini e racconta la genesi del modello.

Il blob nel nord-est del Pacifico, NOAA, public domain

All’inizio era solo un “blob tracker“. Tra il 2014 e il 2016, se n’era parlato spesso. Sulle mappe termiche un’enorme macchia rossa sostava lungo la costa ovest degli Stati Uniti e del Canada. In California,

  • Quell’ondata di calore marina ha portato a una “cascata ecologica” in cui le prede delle balene erano insolitamente concentrate vicino alla riva e gravi fioriture tossiche di alghe hanno ritardato l’apertura delle pesca del pregiato granchio di Dungeness [Metacarcinus magister]. I pescatori cercarono di recuperare il tempo perso aggiungendo nuove trappole per i granchi, e le balene che mangiavano nelle stesse acque restarono impigliate nelle corde che collegavano le trappole.

(Dall’altro ieri l’editoriale di Nature invita a non votare per Marine Le Pen; ieri al dibattito con Macron – soporifero – era meno impreparata di 5 anni fa e contraddiceva il proprio programma come allora.)

*

Variazioni delle temperature alla superficie del mare, EPA Climate Change Indicators/public domain

Due anni fa su Science Avances, Sijuan Hu et al. “suggerivano” che dal 1990 il riscaldamento della superficie marina accelerasse dell’1,9% a decennio le correnti oceaniche meno profonde. Se n’era parlato parecchio perché la Corrente del Golfo rallenta da decenni. Ora con un modello globale di temperature, salinità, venti, circolazione e quelli CMIP6, Qihua Peng e parte degli stessi autori stimano che l’aumento della temperatura spiega quasi interamente quello della velocità delle correnti sui tre quarti degli oceani e modifica la circolazione globale.

La salinità e i venti hanno solo un effetto “regionale”, scrivono. Per esempio la prima frena l’AMOC e quindi la Corrente del Golfo, i secondi “modulano” le correnti equatoriali.

Ci sono incertezze dove mancano serie di osservazioni abbastanza lunghe e differenze inaspettate – almeno per me. Fino a 400 m di profondità le correnti vanno in un senso, sotto vanno nell’altro senso e accelerano poco o niente. Si comportano anche in modi diversi: la corrente delle Agulhas, per dire, sembra ubriaca, quella del Pacifico equatoriale è composta e ordinata.

Il paper è più complicato da leggere del precedente anche per l’accumulo di sigle, ma su Science c’è un ottimo articolo di Paul Voosen. Credo che sia in open access, cito solo un pezzo della conclusione:

  • Correnti oceaniche più veloci e meno profonde avrebbero molte implicazioni per il pianeta. Per esempio potrebbero limitare quanto calore l’oceano può assorbire e una maggior quantità di calore in eccesso resterebbe nell’atmosfera.

Meglio di no, gli incendi stanno devastando di nuovo mezza Siberia.

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