Un’amica all’incirca del mio stesso pelo mi rimprovera di “non credere” agli anticorpi monoclonali. “Non ti vanno mai bene. Prima erano quelli contro il covid, adesso contro l’Alzheimer.”
(Stavamo facendo a gara a chi la perde di più. Dimentichiamo entrambe i nomi, però vince lei perché io troverei subito in inglese o in francese le parole che le vengono in mente ore dopo. Ah sì?)
Comunque ha ragione, ho dei pregiudizi. Trovo quegli anticorpi dei capolavori di ingegneria biochimica, ma…
Vorrei che fossero meno rischiosi e costosi, meno complicati da produrre, mantenere stabili e somministrare, che non interferissero con farmaci indispensabili. E capire perché sono efficaci soltanto ai primi stadi di una patologia. Nel caso dell’Alzheimer, l’aducanumab (Biogen) e il lecanemab (Biogen-Eisai) rallentano – al limite della significanza statistica – il declino cognitivo iniziale, quando la diagnosi è ancora incerta.
Nonostante le obiezioni di parecchi esperti citati da Science e Nature, in USA la Food & Drugs Administration li ha approvati con “procedura accelerata” perché non esistono altri farmaci, e su pressione delle associazioni di pazienti e parenti.
E’ probabile che l’EMA faccia altrettanto per gli stessi motivi.
Ma in USA e nella UE, ogni volta che dei ricercatori riescono a procurarsi informazioni a prova di querela, queste associazioni risultano finanziate dalle case farmaceutiche. A fin di bene, certo, per pagare le spese dei centri di sostegno, conferenze, viaggi a Washington o a Bruxelles per incontrare i decisori politici. Per intervenire nei media, spiegare le proprie necessità e speranze, certo. Fare lobbying insomma.
Tutti vorremmo “crederci” insieme a loro, senza dimenticare gli scandali passati, senza illudere né illuderci.