“Non ho parole,” dice una cliente del bar sotto casa a proposito del nuovo governo. Dopodiché ne ha moltissime, gli altri avventori e la barista pure. Stesso umore fra gli ascoltatori di radiopop, nel mio giro di conoscenti e Ong. Per non disperare, consiglio due ricerche di alto profilo sul serio – secondo me.
Quella uscita su Nature Ecology & Evolution – preprint gratuito su bioRxiv – lo meriterebbe in primis nei paesi dove la malaria (e non solo) è endemica. Per quasi un secolo, c’è stata una sola ipotesi sull’origine delle zanzare portatrici del plasmodio nelle zone aride con una lunga stagione secca: da adulte migrano dalle zone sempre umide perché le larve che depositano nelle pozze d’acqua non riescono a sopravvivere alla siccità,
Eppure nel Sahel appena arriva un po’ di pioggia, le zanzare imperversano. Qualche anno fa, si è cominciato a ipotizzare che le larve andassero in “estivazione” (stesso sistema di risparmio energetico dell’ibernazione). Restava da dimostrare che le adulte non fossero immigrate.
Roy Faiman degli NIH, Alpha Seydou Yaro del Malaria Research Centre in Mali et al. hanno avuto un’idea ge-nia-le.
Ai primi di ottobre, prima che finisse la stagione umida in Mali, hanno aggiunto un po’ di deuterio in 27 pozze d’acqua attorno a due villaggi, e non nelle altre, facendo un rabbocco ogni tanto perché le ultime piogge non lo diluissero troppo. Pochi giorni dopo, hanno catturato centinaia di zanzare – Anopheles coluzzii, in omaggio al grande Mario Coluzzi, prima del 2013 era ritenuta una delle A. gambiae – e verificato che circa un terzo contenessero deuterio. L’anno dopo a maggio, all’inizio della stagione umida, hanno di nuovo catturato centinaia di zanzare: un quinto conteneva deuterio.
Da larve erano andate in estivazione. QED.
Adesso resta da capire quali sono le pozze inaridite ma ancora ospitali, nelle quali spruzzare insetticida all’inizio della stagione delle piogge, nel frattempo esiste un metodo per studiare l’ecologia di tutte le specie di zanzare vettrici di patogeni. Articolo su Nature Asia.
La seconda ricerca, su Science Advances, suggerisce si possono ancora salvare alcune delle specie più spettacolari, anche se ne abbiamo spezzettato, occupato o rovinato l’habitat. Mi ha fatto pensare a questa foto di Marco Cattaneo:

Tra fine Olocene e inizio Antropocene abbiamo estinto o “estirpato” gran parte della megafauna delle foreste tropicali dov’è più abbondante, scrivono Zachary Amir et al. Nei modelli ne deriva una “tendenza globale” al “declino trofico”, correlata positivamente all’indice dell’impronta umana (HFI), alla densità della popolazione umana, alla vicinanza di strade e insediamenti, e last but not least alla deforestazione.
Hanno usato videocamere a scatto e
- rilevato cinque specie di grandi carnivori e nove di megaerbivori in 11.784 catture nell’arco di 63.423 giorni in 10 ecosistemi di foreste tropicali in Thailandia, Malesia peninsulare, Singapore, Sumatra e Borneo.
Viste da vicino insomma, le tendenze sono molto meno semplici di quelle simulate dai modelli.
Ogni ecosistema ha un proprio “assemblaggio idiosincratico” di mammiferi, che a volte smentisce le tendenze globali, anche se nei siti più “disturbati”, l’estinzione/estirpazione è 2,5 volte maggiore e di più a Singapore. Tolto il rinoceronte di Sumatra, inesistente nei 10 siti, le riserve dell’Antropocene ben difese contro i bracconieri sono proteggono perfino grandi predatori a rischio di estinzione come il leopardo nebuloso.

Conclusione: nelle foreste del sud-est asiatico, non hanno trovato conferme
- della previsione che le abbondanze della megafauna contemporanea sarebbero positivamente associate alla copertura forestale e negativamente associate alla presenza di esseri umani. Tigri, leopardi nebulosi, elefanti asiatici e cinghiali hanno mostrato relazioni positive con il degrado delle foreste o con gli esseri umani, suggerendo che questi fattori non sono necessariamente prescrittivi.