Gli olobionti di Lynn Margulis

Lynn, una signora allegra, bonne vivante e molto determinata, aveva lanciato un primo sasso nella piccionaia neo-darwinista con la teoria dell’endosimbiosi. Il grande salto per l’evoluzione delle specie, scriveva in “On the origin of the mitosing cells” – un paper del 1967 quando usava ancora il cognome del marito,

Carl Sagan – è avvenuto quando dei procarioti hanno incorporato nella propria cellula batteri “buoni” (simbionti), diventati i cloroplasti dei vegetali, i mitocondri degli animali, le ciglia e i flagelli di ex procarioti.

Per trasferimento “orizzontale” di geni.

Dopo decenni di polemiche, i suoi colleghi biologi evoluzionisti hanno dovuto ammettere che aveva ragione. Visto che non ne capivano le implicazioni, nel 1991 aveva pubblicato il seguito: la teoria degli olobionti in “Symbiosis as a source of evolutionary innovation: speciation and morphogenesis” (MIT Press).

Zibeto della palma e del Kopi Luak, Foto: Sandeep/CC

L’olobionte base è formato da un procariota e dai suoi simbionti, detti oggi microbiota. In natura però, ci sono molte variazioni sul tema.

La caravella portoghese è un insieme di invertebrati (zoidi) specializzati. Una pianta cresce e si riproduce grazie ai cloroplasti senza i quali niente fotosintesi, certo, ma anche grazie a scambi di nutrienti con batteri e funghi del suolo, con simbionti funghi-licheni sulle rocce, insetti e uccelli impollinatori, mammiferi che ne mangiano i frutti e ne defecano i semi pronti per attecchire e germogliare – come gli zibetti della palma ai quali si deve “il caffè più caro del mondo”: il Kopi Luak. (Attenti alle contraffazioni.)

Noi per sopravvivere e riprodurci dipendiamo da scambi con trilioni di organismi simbiotici: il microbiota che ci digerisce il cibo, e milioni di animali che ce lo concimano e/o ce lo forniscono.

Sottospecie ibride nascono nei nostri ecosistemi come il lupo-coyote che s’aggira nei parchi di New York:

Quanto a morfogenesi la nostra selezione innaturale è imbattibile, pregasi visualizzare come ha trasformato il Canis lupus in chihuahua e gran danese.

Tornando nel seminato e all’olobionte base, eucariota+microbiota, non c’è più dibattito, solo quantità crescenti di studi e di concetti teorici in evoluzione anch’essi, riassunti in parte nell’introduzione al numero speciale di Microbiome, “Host-microbiota interactions: from holobiont theory to analysis“.

Certi biologi hanno adottato con cautela la teoria degli olobionti in rapporti genetici orizzontali con esosimbionti una quindicina di anni fa. Li avevano preceduti gli entomologi che studiano gli insetti benefici, le api, e malefici, la sputacchina portatrice della Xylella fastidiosa. I genetisti di vari rami parlano di “olobioma” per le ricerche di metagenomica sui genomi degli olobionti, un termine coniato sul modello di “microbioma” per i genomi dei batteri dell’apparato digerente. Batteri divisi più per genere che per specie, una distinzione poco affidabile.

“Olobionica” sta per le applicazioni biotech, soprattutto in agronomia. Per rendere più efficiente la rizosfera delle piante alimentari o per ridurre il metano eruttato da ruminanti.

Il problema teorico è che per Lynn Margulis un olobionte era un organismo in relazione e interazioni genetiche sia con endosimbionti sia con esosimbionti ovunque si trovasse. Non definiva i confini dell’organismo, quelli dipendevano dal suo habitat, dal suo sviluppo e dalle circostanze geofisiche. Oggi per alcuni ricercatori valgono solo gli endosimbionti, incorporati nell’ospite anche se non nel suo genoma individuale (come certi virus).

Per altri non importa se dentro o fuori, sono tutti membri della comunità che rende vivo e adattabile un ecosistema, non solo albero, muschio, rampicante, ma foresta.

Sempre più spesso quell’ecosistema rischia di scomparire insieme ai suoi abitanti. Degradato dall’inquinamento, stanno per estinguersi le farfalle (previste da Darwin prima di essere osservate) dalla lunga proboscide che impollinano le orchidee da vaniglia nel Madagascar. O dal riscaldamento globale, quelle orchidee hanno bisogno di umidità e di una primavera fresca.

O da entrambi come la Grande barriera corallina.

Flynn Reef Outcrop, Grande barriera corallina – foto di Tony Hudson/CC

L’olobionica potrebbe salvarli.

Sull’Economist tre settimane fa, la bravissima Natasha Loder citava ricerche sui coralli di Madeleine van Oppen all’università di Melbourne e di Raquel Peixoto all’università King Abdullah in Arabia saudita. Vorrebbero renderli resistenti alle acque scaldate dal Niño. La prima cerca di modificare geneticamente qualche batterio endosimbionte e la seconda particolari zooxantelle, delle alghe dinoflagellate e degli esosimbionti con simbionti in proprio.

Non è detto che ci riescano e ancor meno che sia possibile salvare un ecosistema “su questa scala”, scrive,

  • But the very fact that it is happening at all is, surely, testament to an idea whose time has come.

Come per il primo “cambio di paradigma” proposto da Lynn, la comunità scientifica fa resistenza. Per lei e per una nuova generazione di biologi evoluzionisti l’olobionte è una comunità genetica, in cui la selezione naturale fa evolvere le specie di concerto, non coglie l’occasione di qualche gene mutato dell’ospite o di un suo endosimbionte, opera olisticamente.

E questa è un’idea che non va giù a molti teorici dell’evoluzione. Preferiscono circoscriverla a un organismo, magari detto “superorganismo“, il cui genoma è individuale, e al suo microbiota composto da batteri, virus e protisti il cui microbioma è collettivo.

Protisti è un progresso, immagino, eppure senza gli zibetti della palma, niente Kopi Luak.

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