Da globale a locale

E ritorno. Quando ho conosciuto Jim Hansen a Milano, nel 2010, gli ho chiesto se il suo GISS-NASA non farebbe un modello climatico per l’Africa subsahariana e quanto costerebbe ad Action Aid. Così a occhio.

“No way.” E perché? “It’s a data desert”. Ma anche la Banca Mondiale e le agenzie Onu hanno progetti a lungo termine, come fanno a pianificare? Dei loro piani non era entusiasta (eufemismo).

Ennesimo arresto di James E. Hansen, fonte The Guardian

Da allora un po’ grazie a nuovi satelliti [inserire un inno ai Sentinel], maggior potenza di calcolo, studi di attribuzione – che stimano di quanto il riscaldamento globale aumenta l’intensità e la frequenza di eventi meteo devastanti – l’Africa subsahariana è meno deserta di dati e da globali i modelli sono diventati regionali o nazionali come quelli dell’EMCC per l’Italia.

Preparo una piccola bibliografia “ragionata” – be’ ci provo… – per Action Aid. La metto qui, magari può servire ad altre Ong, associazioni, militanti per la giustizia sociale, climatica e ambientale. Per progettare, protestare e far pressione sui governi che non vogliono saperne. E che non raccolgono dati (carenti anche per demografia, sanità, istruzione ecc.)

Le basi

Nel 2009, un gruppo multidisciplinare – di cui Jim Hansen, la mia domanda non era del tutto insensata… – pubblicava “A safe operating space for humanity“, noto come “I limiti del pianeta”. Un classico. Il 31 maggio scorso, è uscita una versione aggiornata con autori in parte diversi che collaborano con la Earth Commission, un ramo della Global Commons Alliance: “Safe and just Earth system boundaries” – motivi e ambizioni nell’editoriale di Nature – non solo per la specie H. sapiens questa volta.

Il paper mappa la situazione attuale di ecosistemi regionali e sub-globali (per es. foresta boreale e tundra artica). Nei criteri che definiscono la giustizia – discussi a lungo nei Materiali supplementari – riprende in parte quelli degli Scopi dello sviluppo sostenibile (o Agenda 2030, comunque pare proprio che non saranno raggiunti) e poi mostra quali limiti sono già stati superati e dove.

I modelli simulano l’evoluzione del “sistema” Terra (atmosfera, idrosfera, geosfera, biosfera e criosfera) per i “beni comuni globali”: clima, acqua potabile, aerosol, nutrienti essenziali per le piante come azoto e potassio, funzionalità degli ecosistemi. In sostanza, è un paper sui vincoli biofisici della vita sulla Terra, da studiare e rimuginare prima di aggiungere i vincoli sociali, economici e politici con i quali s’incrociano e si scontrano…

Sul sito dell’Earth Commission c’è un sunto divulgativo da usare anche tale quale per l’advocacy. Magari da completare localmente con, per esempio, la ricerca di Elisa Savelli et al. sull’accesso all’acqua nei quartieri ricchi e poveri di alcune grandi città, tra cui Roma: “Urban water crises driven by elites’ unsustainable consumption“. E con molte ricerche analoghe sull’accesso ingiusto al verde urbano, bibliografia a richiesta.

Sviluppo estrattivista

Per la transizione alle energie rinnovabili sono necessarie quantità massicce di minerali. Nei paesi poveri, la loro estrazione distrugge spesso le risorse necessarie alla sopravvivenza degli abitanti. Esiste un Atlante globale della giustizia ambientale – dell’ingiustizia e dei conflitti in realtà – che raccoglie le denunce di Ong, associazioni, cronisti, quando non mettono a rischio la comunità. L’Atlante pubblica analisi delle vittime locali, una recente sull’India per esempio, ma su Nature Sustainability (bella rivista anche se non tutta in open access) e su Science Advances sono usciti due studi sulle popolazioni più vulnerabili:

I “granai del mondo”

L’impatto dei cambiamenti climatici sulla sicurezza alimentare in generale e sulle regioni cerealicole (“breadbaskets”) in particolare preoccupa sempre di più le agenzie Onu, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. I paesi esportatori sono concentrati nell’emisfero nord, dove gli eventi estremi stanno diventando più distruttivi. In India e in Pakistan, per esempio, le ondate di calore iniziano in primavera, riducono le rese e il tempo di lavoro tollerabile.

Per di più le multinazionali dell’agribusiness sfruttano i conflitti e di recente la guerra in Ucraina per fare profitti “osceni” e causare carestie e fame, come dice un editoriale di Nature, mica Action Aid e Oxfam, un’infuriata da tenere sottomano anche per i link a paper e rapporti recenti.

Cosa succede alle rese agricole quando eventi meteo estremi si sommano? Tipo una lunga siccità e due brevi periodi successivi di precipitazioni intense come quest’anno in Emilia Romagna? Kai Kornhuber e il suo gruppo cercano di rispondere in “Risks of synchronized low yields are underestimated in climate and crop model projections” con serie di dati sulle rese locali, e osservazioni sul fenomeno recente e semi-globale delle onde di Rossby – quelle formate della corrente a getto – che stazionano sull’emisfero nord dove si produce il 66% delle risorse alimentari.

Pampa argentina senza vegetazione autoctona perenne, foto Luis Algerich/CC

Eppure il cibo c’è perché aumenta la superficie coltivata e non sempre a danno delle foreste. A volte la soluzione sembra corretta, ma nel tempo ha effetti controintuitivi. In “Agricultural expansion raises groundwater and increases flooding in the South American plains“, Javier Houspanossian et al. scrivono che l’espansione delle colture pluviali, cioè la sostituzione delle piante autoctone delle praterie sudamericane con colture annuali, ha modificato il ciclo idrologico. Negli ultimi vent’anni – anche per via di precipitazioni più intense – è raddoppiata la superficie che si allaga perché il livello delle acque sotterranee si è alzato da 10-6 metri a 4-0 metri di profondità.

Quest’anno però, in Argentina una siccità senza precedenti storici

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