Al primo posto nell’O’s digest di oggi, il mensile Vita “Occupy Ucraina” perché nei bilanci di un anno di guerra non sono mai ricordate le attività di centinaia di Ong locali e internazionali. Sarà che staff e volontari sono pacifisti, non-violenti, giudicati a priori come parolai ingenui o codardi o ipocriti…
E’ una panoramica incompleta perché riguarda innanzitutto gli “occupanti” italiani. Per motivi di sicurezza, mancano anche le testimonianze di associazioni – come The Ark in Russia – che aiutano profughi ed emigrati fuori e nei rispettivi paesi, i contrari alla guerra in generale: familiari dei coscritti, obiettori di coscienza, disertori, militanti per i diritti umani.
Un anno di guerra anche su Nature (altri articoli nella colonna di destra):
- Rebuilding Ukrainian science can’t wait — here’s how to start,
- The fight to keep Ukrainian science alive through a year of war.
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E’ una rassegna indignata dall’omertà, dall’impunità, dai danni per i pazienti, dallo spreco di tempo e di denaro e dalla sfiducia verso la scienza causata dalle falsificazioni. Ne sono responsabili soprattutto le riviste biomed che pubblicano quantità crescenti di falsi “for money”, perfino risultati di trial mai avvenuti, e fanno di tutto per ritrattarli il più tardi possibile o mai.
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Ho trovato più divertente che persuasivo “Biased cultural transmission of a social custom in chimpanzees” di Edwin van Leeuwen e William Hoppitt, due ricercatori in comportamenti e cognizione animale su Science Advances. Gli scimpanzé imitano di preferenza la “stretta di mano” (dalle foto piuttosto un “dammi il cinque”) di certi individui – non per forza maschi alfa o i propri pari – finché diventa un’espressione culturale del proprio gruppo. Perché si diffonde un gesto amichevole invece di un altro? Gli autori suggeriscono un’ipotesi che ricorda gli influencer umani:
- Una maggioranza meno esigente (cognitivamente) potrebbe aver influito sullo stile adottato dagli scimpanzé.
“Bat pluripotent stem cells reveal unusual entanglement between host and viruses” di Marion Déjosez et al. su Cell è un po’ tecnico. Domanda: come mai i pipistrelli sono portatori sani, i.e. incorporano nel proprio genoma striminzito senza risentirne una gran quantità di virus che in altri mammiferi tipo H. sapiens causano zoonosi tipo Ebola o il covid?
Gli autori sono riusciti a far tornare staminali pluripotenti – quelle che costituiscono l’embrione e producono le cellule specializzate che si riprodurranno per formare i vari organi – cellule già differenziate dei pipistrelli Rhinolophus ferrumequinum e Myotis myotis. E a coltivarle, trasferirle nei topi, derivarne vari tessuti e perfino “organoidi”. E a identificare nel genoma delle staminali i geni che reagiscono a sequenze di RNA di intere famiglie di retrovirus. Geni simili a quelli nostri e dei topi, ma sequenze virali che si trovano solo nelle cellule specializzate che sono state attaccate da quei virus.
Come se nel corso dell’evoluzione il genoma di quei pipistrelli avesse sfruttato le sequenze virali al punto di renderli immuni ancor prima di nascere.
Altri particolari (ho semplificato di brutto) e implicazioni per future ricerche nella recensione di Kai Kupferschmidt per Science.

“Extinct in the wild: The precarious state of Earth’s most threatened group of species” di Donald Smith et al., Science, è una rassegna di ricerche sulla sorte di 95 specie estinte in natura (EW), di cui alcuni esemplari erano custoditi “ex situ” (EX) in banche dei semi, orti botanici, aquari e zoo. Storia triste: 11 sono “andate perse”, e delle 84 restanti soltanto 12 sono state reintrodotte in natura, quasi tutte di animali; per 41 di esse non è stato fatto alcun tentativo e rischiano di essere in uno stato geneticamente precario.
Sul Sole-24 Ore e qui, ho parlato ogni tanto della “fertilizzazione degli oceani”, una geoingegneria del clima che, salvo vendita truffaldina di crediti carbonio, consiste nello spargere polvere di ferro sull’oceano per stimolare le fioriture d’alghe (il ferro è un micro-nutriente del fitoplancton). Così nella stagione giusta la loro fotosintesi assorbe molto più carbonio dall’atmosfera, e contribuisce frenare il riscaldamento globale.
L’ultimo esperimento – su piccola scala – risale al 2014, nel posto più produttivo: nell’Oceano meridionale vicino all’Antartide. I ricercatori ne erano soddisfatti, ma è stato così complicato da organizzare e costoso che nessuno ci ha riprovato.
Dubito che sia una buona idea perché sotto le fioriture altre specie avrebbero meno ossigeno.
Comunque in “Multidecadal trend of increasing iron stress in Southern Ocean phytoplankton” (Science) Thomas J. Ryan-Keogh et al. – del Southern Ocean Carbon & Climate Observatory, a Città del Capo – derivano la produttività del fitoplancton nell’Oceano meridionale da immagini satellitari, osservazioni e prelievi durante “crociere” di ricerca, e una serie di dati su temperatura e composizione dell’acqua ottenuti tra il 1996 e il 2021 – in particolare dal 2004 con le boe Argo.
Per via dell’acqua più calda, della sua acidificazione e di un deficit crescente del ferro “biodisponibile”, la “produzione primaria netta” del fitoplancton sta calando in quasi tutta la regione:
- Se questa tendenza fosse dovuta principalmente all’aumento dello stress da Fe, suggerirebbe notevoli implicazioni per gli aggiustamenti della produzione primaria netta e per l’efficacia della pompa biologica del carbonio.
Il paper è un tour de force di bio-fisico-chimica, modelli di circolazione delle correnti, dell’irradianza solare intercettata (quenching?) dalle alghe, della loro produzione primaria e bioluminescenza, più esperimenti di fertilizzazione in provetta ecc. Ogni passaggio ha un tot di incertezza e non ho capito – tra altre cose, per esempio il rapporto ferro/clorofilla – i metodi che gli autori usano per estrapolare una tendenza univoca dal mucchio.
Per fortuna c’è una buona recensione (spiega anche il quenching) di Eric Cornwall:
- Alessandro Tagliabue, un oceanografo dell’Università di Liverpool [coautore del paper] afferma che la tendenza alla carenza di ferro potrebbe essere temporanea. Ma è anche possibile che i modelli che prevedono l’abbondanza futura stiano travisando qualcosa sull’Oceano Antartico e sugli organismi che ci vivono. “Dobbiamo capire perché i modelli non riproducono le tendenze attuali”…