Il metano non dà una mano

Parecchie Big Oil & Gas cercano di rinverdirsi la facciata vantando il metano come fonte indispensabile durante la transizione energetica, in quanto meno dannoso per il clima del carbone e del petrolio. Non proprio. L’Economist dedica un editoriale e un approfondimento all’urgenza di ridurre le emissioni di metano, dalla vita breve in atmosfera, ma “86 volte” più riscaldante della CO2.

Quello di origine “antropica” è prodotto per il 30% circa (sono stime arrotondate) dagli allevamenti e per un altro 30% dall’estrazione e distribuzione del metano. In quest’ultimo caso, gli interventi per eliminare le fughe di gas alla fonte e dai gasdotti sono a costo zero: si ripagano vendendo la merce che prima veniva buttata via.

Eliminare quelle dei bovini da carne e da latte è meno facile. Parecchi integratori alimentari fanno calare i rutti, ma anche la quantità di carne e di latte. Anche le risaie allagate emettono metano, ma il riso si può anche coltivare “a secco”. Oltretutto l’irrigazione mirata risparmia risorse idriche già scarse.

Questo dal punto vista dei fautori del libero mercato.

Sullo stesso tema, in

The climate responsibilities of industrial meat and dairy producers (Climatic Change)

il dottorando Oliver Lazarus et al. stimano il contributo delle 35 Big Meat & Milk. Le due più virtuose, Nestlé in Svizzera e Fonterra in Nuova Zelanda, hanno promesso di arrivare a “zero emissioni nette” entro il 2050, ma tengono conto soltanto dei propri consumi di energia. Senza quel trucco, in CO2 equivalente

  • rappresenterebbero oltre il 100% del livello di emissioni al quale mirano, entro il prossimo decennio, i paesi dove hanno sede.

Quanto alle 10 Big Meat & Milk statunitensi,

  • hanno contribuito agli sforzi per sabotare i provvedimenti riguardanti il clima

con un entusiasmo pari a quello delle Big Oil & Coal. Immaginavo, ma non avevo idea di quanto avessero investito. Il paper è a pagamento, suggerisco il com. stampa dignitoso dell’università di New York, e un ottimo articolo su Inside Climate (h/t radioprozac).

Su Nature Climate Change che questo mese compie 10 anni, Ariel Ortiz-Bobea di Cornell et al. fanno un esperimento in silico intricatissimo. Sono partiti da un modello econometrico detto Total Factor Productivy – in realtà più di 200 accorpati in media globale – per tener conto delle variabili che hanno influito sulla produttività agricola negli ultimi 60 anni: meteo, meccanizzazione, fitofarmaci, nuove sementi, maggior/minor uso di mano d’opera e di suolo per le varie piante, aumento degli allevamenti intensivi, dell’inquinamento ecc. ecc.

Poi l’hanno abbinato a modelli climatici “controfattuali” (senza l’influenza delle nostre emissioni di gas serra, per es. con 1 °C in meno di temperatura globale) per vedere la differenza. Risultato:

  • Dal 1961 il cambiamento climatico antropico ha ridotto la produttività agricola totale del 21% circa, un rallentamento equivalente a perdere gli ultimi 7 anni di aumento della produttività. L’effetto è sostanzialmente più severo (una riduzione del 26-34%) nelle regioni più calde quali Africa, America Latina e Caraibi.

Almeno la CO2 dovrebbe aumentare le rese delle piante alimentari per animali umani e non, nelle zone temperate con acqua poco inquinata e suoli ricchi di nutrienti e di biodiversità, o no?

E nel futuro non andrà meglio. Il paper è in lettura gratuita, da far girare nelle Ong. Commento di Keith Fuglie con le implicazioni per la sicurezza alimentare (anche lui vorrebbe più ricerca), com. stampa di Cornell, e articolo del Guardian.

Gli articoli di Nat. Clim. Change fanno capire come mai i climatologi sono quasi tutti a favore di ricerche sulla fattibilità di “gestire” la radiazione solare immettendo continuamente particelle di solfati in stratosfera.

Insieme a scienziat* di discipline molto diverse un altro dottorando di Cornell, Daniele Visioni, ha partecipato all’elaborazione di un programma mondiale di ricerca, appena uscito in open access sui PNAS: che cosa bisogna studiare/simulare con modelli ed esperimenti per valutare i benefici eventuali e gli impatti probabili di detta “gestione” per gli ecosistemi e i loro abitanti, noi compresi. L’intenzione è di tappare i buchi nella conoscenza dell’intero “sistema Terra”, quindi la prima metà è un riassunto di quello che si sa per i vari biomi.

Molto utile, trovo, qualunque cosa si pensi della geoingegneria. Com. stampa per chi ha fretta.

136 pensieri riguardo “Il metano non dà una mano

  1. @Camillo
    questa è la Mirai a idrogeno della Toyota ora disponibile anche in Italia: 650 km di autonomia:

    https://www.motori.it/ultimi-arrivi/2034968/toyota-mirai-2021-prezzi-e-dotazioni-per-litalia.html

    Il problema è che bisognerà decidersi: o riempiamo l’Europa di colonnine di ricarica o di distributori di idrogeno: seguire contemporaneamente le due strade mi pare sarebbe uno spreco enorme anche se credo succederà proprio che prima riempiremo le strade di auto a batteria e di colonnine di ricarica, poi tra meno di dieci anni passeremo all’idrogeno.
    Come per la TV digitale terrestre, introdotta 10 anni fa e adesso si passa già al MPEG-4 in sostituzione del MPEG2 per cui i televisori più vecchi di 10 anni andranno sostituiti e il prossimo anno si passa al DVB-T2 col codec H265/HEVC non compatibile con i “vecchi” apparecchi antecedenti il 2017.

    Bei tempi quando Edison inventò la lampadina a incandescenza ed essa rimase praticamente immutata (persino nel filetto) per più di 100 anni.

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    1. @Mario

      questa è la Mirai a idrogeno della Toyota ora disponibile anche in Italia: 650 km di autonomia

      Letto solo ora.
      Questa notizia è una vera bomba. Se le celle a idrogeno hanno fatto progressi così straordinari cambia tutto. Domanda: perché progressi così impressionanti vengono fatti solo nel privato e non all’Università? Studiare celle a combustibile non dovrebbe richiedere investimenti colossali. Sta succedendo come con i vaccini rDNA, inventati da una coppia semisconosciuta di Turchi in un loro laboratorio privato.
      Saluti

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  2. @Camillo
    Ovviamente la devi confrontare con un’auto elettrica della stessa categoria (è lunga 5 metri, larga 1.9, pesa 2 ton e ha 182 CV), tipo la Volvo XC40 (59.600 €) o la BMW iX3 (73.000 €) che però hanno potenza maggiore ma minore autonomia. Roba per pochi insomma.

    Sarebbe interessante se uscissero con un’auto allineata con la Fiat 500 elettrica o la Mazda elettrica MX-30 o la DS3 elettrica (tutte sui 35.000 €) per dimostrare che la tecnologia è competitiva anche su auto più normali. Ma senza distributori di idrogeno, chi le compra?

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    1. @Mario

      Ma senza distributori di idrogeno, chi le compra?

      Se si vuole ridurre l’incidenza della CO2 sulla mobilità, bisogna produrre auto elettriche di massa, Volkswagen, come si dice in tedesco. Ormai auto a batteria sono disponibili da anni, ma il loro contributo alla riduzione della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera è insignificante, ammesso che esista, fatti i conti per benino sul ciclo di vita di un’auto da 50000 € e più. Si incoraggi piuttosto l’uso del metano. Nel medio periodo, in attesa del nucleare di nuova generazione, è la risposta già a disposizione. Senza incentivi che falsano il mercato.

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